Maschera Ghignante

Le maschere sono raffigurazioni plastiche limitate al volto, con aperture passanti in corrispondenza degli occhi e spesso anche della bocca. Abitualmente realizzate in terracotta, esse sono prodotti caratteristici dell’artigianato.


Il ritrovamento in tombe della maggior parte delle maschere occidentali ne documenta la funzione preminente in rapporto alla morte: in particolare, per quelle del Tofet di Mozia in Sicilia è stato suggerito che coprissero il volto delle vittime del sacrificio.
Le aperture in corrispondenza degli occhi e della bocca ne individuerebbero, comunque, l’uso su esseri viventi: soprattutto per le maschere di grandezza naturale si pensa che con tutta probabilità esse fossero indossate da sacerdoti o devoti nel corso di cerimonie o di rappresentazioni religiose. Per quelle più piccole, si è invece ipotizzato che esse fossero applicate a simulacri o statue. Frequenti risultano le maschere grottesche, che sono raggruppate nei tipi negroide e ghignante.
Nel gruppo delle maschere ghignanti i tratti del viso sono alterati e distorti di modo da ottenere l’aspetto grottesco delle stesse. Le attestazioni più antiche risalgono al VII secolo a.C. per perdurare, con variazioni tipologiche e stilistiche, durante tutto il periodo arcaico e classico, fino ad integrarsi nelle produzioni regionali del periodo ellenistico.
Una particolare frequenza di ritrovamenti interessa poi il periodo che va dal Bronzo finale alla prima parte del Periodo del Ferro.
A partire dal IX secolo a.C. la maggior parte dei rinvenimenti interessa tutta la costa fenicia.

Maschere e protomi ricorrono poi in molte regioni fenicie coloniali: Malta, Cartagine, Utica, Diserta, Mozia, Sardegna, Ibiza.
In Sardegna l’uso di maschere e protomi ha un’attestazione analoga a quanto si registra a Cartagine; le analogie riguardano tipologia generale e cronologia. Qualche ritrovamento si ha in santuari, anche se la maggioranza dei pezzi proviene da necropoli.

 

Fra tutte le maschere ritrovate, quella di San Sperate può essere annoverata senza ombra di dubbio, tra gli esemplari migliori.
Essa fu ritrovata nel 1876, in Bia de Deximu Beccia, la Maschera Apotropaica (che allontana, cioè, le influenze maligne), ha ormai acquisito un valore simbolico per le antichità di S. Sperate ed è presente in tutti i più rilevanti trattati che trattano argomenti relativi alla cultura fenicia e punica.    

Si tratta di una splendida opera di coroplastica, in argilla beige chiaro, decorata con una ricca serie di disegni raffiguranti rosette, sole, urei, globetti e palmette, applicati a stampo sulla fronte e sul mento.È arricchita da una banda composta da cinque linee orizzontali incise sulla fronte e sugli zigomi, quasi a simulare i tatuaggi.  Presenta inoltre, dei fori nelle orecchie e nel naso atti per ospitarvi gli orecchini e il nezem, un anello in argento applicato all’estremità del naso.
Il trattamento volumetrico delle cavità oculari, la morbidezza della superficie facciale, la nettezza dei contorni e le superfici lamellari intorno alla bocca, mettono inoltre ancor più in risalto la perizia dell’artista.
La pertinenza cronologica è stata a lungo oggetto di controversia. Pur con qualche discordanza fra gli studiosi, oggi si tende a collocarla al V secolo a.C.

Data di ultima modifica: 22/03/2017

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